Rallentare o morire. Per un’economia della post-crescita

di TIMOTHÉE PARRIQUE, Ricercatore presso la Facoltà di Economia e Management dell’università di Losanna Traduzione di Alberto…

di TIMOTHÉE PARRIQUE, Ricercatore presso la Facoltà di Economia e Management dell’università di Losanna

Traduzione di Alberto Folin (ed. Marsilio)

Ecco l’introduzione del saggio, anticipata dal Corriere della Sera nel suo supplemento #721 La Lettura, il 20 settembre 2025

In libri di questo tipo di solito si comincia con il sottolineare la situazione in cui ci si trova: dopo aver fatto il consueto elenco dei cataclismi ecologici e delle relative conseguenze sociali, si scelgono alcune cifre scioccanti con l’aggiunta di una o due storie per catturare l’attenzione. Ma perché perdere tempo? Tutti sanno che esiste un problema senza precedenti nella storia dell’umanità. Il collasso ambientale col quale dobbiamo ormai fare i conti impone quotidianamente la sua dose di disastri, e pochi sono quelli che osano contestare la schiacciante responsabilità della nostra specie.

Benvenuti nell’Antropocene. In coincidenza con l’inizio della rivoluzione industriale è questo il nome che gli scienziati hanno assegnato al periodo «in cui le attività umane stanno avendo forti ripercussioni sugli ecosistemi del pianeta e li stanno trasformando a tutti i livelli». Sarebbe perciò l’umanità nel suo complesso (ánthropos), la chiassosa famiglia dei sapiens, a essere responsabile dell’apocalisse: una colpa generale di cui ogni individuo dovrebbe vergognarsi, e per la quale l’espiazione potrebbe essere solo collettiva.

Ma la colpa è davvero di tutta l’umanità? Nel 2021, il 10% delle famiglie piu ricche del mondo possiede il 76% del patrimonio globale e percepisce piu della metà di tutti i redditi, ossia 38 volte più ricchezze e 6 volte piu redditi della metà più povera dell’intera umanità. Peggio ancora: l’1% dei piu ricchi (appena 51 milioni di persone) si è accaparrato il 38% dell’intera ricchezza prodotta dal 1995, mentre la metà più povera dell’umanità ha ottenuto appena il 2%. Stessa situazione in un Paese come la Francia, dove il decile piu ricco possiede quasi la metà del patrimonio nazionale e detiene un terzo di tutti i redditi.

Il diritto alla ricchezza equivale al diritto a inquinare. Il 10% delle persone più ricche del pianeta è responsabile della metà delle emissioni totali di gas serra. La simmetria tra ricchezza ed emissioni è quasi perfetta. Questa «élite dell’inquinamento» inquina quattro volte piu della metà piu povera dell’umanità.

Questa «apartheid globale» è doppiamente ingiusta. I ricchi inquinano e i poveri subiscono. Il pescatore somalo che vede il suo pescato ridursi sempre più mentre il livello del mare aumenta, probabilmente non è mai salito su un aereo; non ha avuto alcun ruolo né rispetto al riscaldamento che ha ereditato, né alla pesca divenuta troppo intensiva. Ciononostante, sarà lui a pagarne il prezzo, e sarà tra i primi. Sono le persone più vulnerabili, a cominciare da quelle dei Paesi più poveri, a bere acqua inquinata, a respirare fumi tossici, a vivere vicino alle discariche, a subire inondazioni e periodi di siccità ecc. La nozione di Antropocene maschera profonde disuguaglianze: anche se siamo tutti della stessa specie, non siamo uguali né sotto il profilo della responsabilità né sotto quello dei pericoli che corriamo di fronte ai disastri ecologici di oggi e di domani.

Diciamolo chiaramente: il collasso ecologico non è una crisi, ma un «pestaggio sistematico». Il dissesto climatico è una «violenza lenta» e diffusa, una forma di usura che viene esercitata sistematicamente lontano dalla vista, oggi principalmente contro le popolazioni piu impoverite, ma che è destinata un po’ alla volta a risalire la scala sociale. Questa situazione non ha nulla a che vedere con una supposta natura umana, è piuttosto il sintomo di un’organizzazione sociale specifica, strettamente legata a una certa visione politica del mondo. O quantomeno è la tesi che sosterrò in questo libro: la causa primaria del deragliamento ecologico non e l’umanità, ma il capitalismo, il prevalere dell’economia su tutto il resto e la ricerca sfrenata della crescita.

Lasciamo da parte quindi espressioni come Antropocene e utilizziamo piuttosto termini come CapitaloceneEconocene e PILocene. Senza mezzi termini: l’economia è diventata un’arma di distruzione di massa. Nei suoi scritti, l’economista Serge Latouche riprende la terminologia di Hannah Arendt e parla di «banalità economica del male»: un sistema che orchestra il massacro degli esseri viventi, alleviando la colpevolezza di chi ne è responsabile. Ognuno svolge diligentemente il compito che gli è stato assegnato, giustificando la propria azione con la scusa che se avesse deciso di non farlo, qualcun altro lo avrebbe fatto al posto suo.

Quanti impiegati di banca si dedicano a inventare prodotti finanziari tossici e quanti ingegneri si applicano per progettare super-yacht? Quanti manager licenziano per ragioni «economiche»? Quanti pubblicitari promuovono prodotti dannosi e inutili? Quanti lavoratori dei macelli brutalizzano e uccidono serialmente gli animali? Quanti lobbisti mentono per proteggere gli interessi legati ai combustibili fossili? Devo pur pagare le bollette, risponderanno coloro che vengono accusati di distruggere il mondo. Se non lo faccio io qualcun altro lo farà al posto mio.

Questa violenza è un fenomeno emergente, una sorta di disordine spontaneo, che nessuno ha previsto direttamente e che viene sostenuto fino all’assurdo dai nostri comportamenti sociali più comuni. Dobbiamo restituire un prestito, pagare una bolletta, soddisfare gli azionisti, realizzare un profitto; siamo ostaggi di un sistema che predetermina in parte comportamenti che altrimenti sarebbero considerati immorali. Presteremmo ai nostri amici denaro a interessi da strozzinaggio? Faremmo pubblicità per indurre i nostri amici e familiari ad acquistare prodotti di cui non hanno alcun bisogno? Decideremmo di licenziare un caro amico perché qualcuno dall’altra parte del pianeta può lavorare per me a un costo minore? Evidentemente no. Se la miniera di cobalto si trovasse nel mio giardino e i miei figli ci lavorassero, ci penserei due volte prima di cambiare cellulare.

E tuttavia non abbiamo scelta. L’economia s’impone su di noi attraverso regole che è buona norma rispettare: un prezzo, un contratto di lavoro, un mutuo, regole contabili. Il problema non è l’esistenza dell’economia di per sé (ogni società ha organizzato in un modo o nell’altro le sue attività produttive), ma piuttosto le regole che le assegniamo attualmente così come l’obiettivo centrale che ne è l’anima: la crescita. Comunque stiano le cose a proposito dei redditi individuali, del profitto delle imprese, o del PIL di un Paese, sembrerebbe che, in economia, più sia sinonimo di meglio.

Che cos’è la crescita? Argomento magico delle campagne elettorali, inossidabile risposta al dissesto dei bilanci familiari, tale termine ha penetrato l’immaginazione dei nostri contemporanei a un punto tale che nessuno si astiene dall’esprimere il proprio parere sulla questione. Tuttavia, pochi sanno non solo cosa sia la crescita e come si misuri, ma anche i complessi legami che la connettono alla natura, all’occupazione, alla povertà e alle disuguaglianze, al debito pubblico, alla coesione sociale e al benessere. Nata come concetto contabile negli anni trenta del secolo scorso (Prodotto nazionale lordo), è diventata un mito dalle mille sfaccettature. Progresso, prosperità, sviluppo, protezione, innovazione, potere, felicità: la crescita non è più soltanto un indicatore, è un contenitore simbolico pieno di progetti collettivi e individuali.

Crescita verde, crescita circolare, crescita inclusiva, crescita azzurra; cinquanta sfumature di crescita, ma sempre crescita. La presa che questa matrice di crescita ha sull’immaginario collettivo è tale che invece di considerare le conseguenze del nostro modello economico sul pianeta, noi ci preoccupiamo dell’impatto del riscaldamento climatico sul PIL. È il mondo alla rovescia. È facile immaginare il nostro pianeta in ogni sorta di distopia in stile Black Mirror, ma immaginare un’economia in cui si produca meno di quanto si faccia oggi suona come qualcosa di eretico.

C’è stato un tempo in cui la crescita ha avuto una funzione ben precisa, ovvero rilanciare l’economia americana dopo la Grande depressione, produrre le attrezzature necessarie per la guerra, uscire dalla fame, sradicare la povertà, garantire la piena occupazione, o ricostruire l’Europa. La sua misurazione permetteva di valutare i progressi compiuti verso questi diversi obiettivi. Nel corso dei decenni, l’indicatore è diventato l’obiettivo: la crescita per la crescita, senza più alcuno scopo soggiacente. Ma produrre per produrre è uno scopo privo di sostanza. Noi, abitanti di quei Paesi che il resto del mondo guarda con immensa invidia, continuiamo a sacrificare il nostro tempo e le nostre risorse per produrre e consumare sempre di più quando non abbiamo più niente da guadagnare – e molto da perdere –, ostinandoci a far crescere il PIL. Qualcosa di analogo potrebbe essere rappresentato da un giovane adulto che, avendo appena terminato di crescere, si ostinasse a voler diventare sempre più alto, senza rendersi conto che, dopo una certa età, la crescita non si misura più in centimetri.

Nel momento in cui scrivo queste righe, ogni centimetro in più viene ottenuto con dolore. La Terra si sta surriscaldando, le società sono in burn-out e il PIL sta diventando una specie di «conto alla rovescia per la fine del mondo». Un conto alla rovescia formidabile perché esponenziale: più grande è l’economia, più cresce velocemente. Un tasso di crescita del 2% annuo fa raddoppiare le dimensioni dell’economia ogni trentacinque anni. Siamo a bordo di un autobus che sfreccia a tutta velocità verso un precipizio e accogliamo ogni chilometro orario in più come un progresso. È insensato. Massimizzare la crescita significa mettere il piede sull’acceleratore con la certezza che finiremo per morire in un collasso sociale ed ecologico.

Possiamo parlare di atterraggiodietadecrescitade-escalationdiscesaarmonizzazionesobrietà, o suggerire qualunque altra analogia. La sfida che abbiamo di fronte è quella del meno, del più leggero, del più lento, del più piccolo. E la sfida della sobrietà, della frugalità, della moderazione e della sufficienza. Ma si tratta pur sempre di un atterraggio, non di uno schianto; di una dieta, non di un’amputazione; di un rallentamento, non di una sosta. Sappiamo che dobbiamo rallentare, e dovremo ora capire come pianificare in modo intelligente questa transizione affinché essa si realizzi democraticamente con un occhio di riguardo per la giustizia sociale e il benessere.

Per farlo, dobbiamo liberarci della «mistica della crescita», cioé denaturalizzare la crescita economica come fenomeno. Abbiamo urgentemente bisogno di guardare con occhio critico le pratiche che abbiamo standardizzato come naturali e universali. Ogni azienda deve fare profitti? Dobbiamo lasciare che siano i mercati a decidere cosa produrre? Un governo dovrebbe puntare ad aumentare il proprio PIL? L’argomento che sosterrò qui è che la crescita non è una fatalità, ma una scelta.

Le implicazioni di questa tesi sono più ampie di quanto possa sembrare: se la crescita non è causata dalla natura umana ma piuttosto da alcune istituzioni socialmente costruite, è possibile immaginare un’economia che possa funzionare senza necessariamente produrre e consumare di più. La sfida lanciata in questo libro è quella di immaginare la decrescita come transizione verso un’economia post-crescita.

Qui sta la duplice definizione che ci guiderà per tutto il libro: la «decrescita» come riduzione della produzione e del consumo per alleggerire l’impronta ecologica, democraticamente pianificata in uno spirito di giustizia sociale e con un’attenzione al benessereDecrescita fino a dove? Risposta: verso la «post-crescita», verso un’economia stazionaria in armonia con la natura, dove le decisioni sono prese insieme e le ricchezze sono equamente condivise, in modo da poter prosperare senza crescita.

È una triplice sfida: comprendere come il modello economico di crescita sia un vicolo cieco (il rifiuto), delineare i contorni di un’economia post-crescita (il progetto), e concepire la decrescita come transizione per arrivarci (il tragitto). Nei capitoli che seguiranno, il libro sostiene un’idea semplice ma radicale: la crescita è diventata un problema esistenziale. La nostra sopravvivenza dipende ora dalla capacità, o meno, di cambiare il nostro sistema economico.
(© Éditions du Seuil, 2022; © Marsilio Editori, 2025)

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